Digitali senza tirocinio: la pandemia e gli over 65
Spesso arrivano domande molto importanti, da quarantenni o cinquantenni rispetto ai propri genitori, ma non solo, mi capita di raccogliere riflessioni anche da persone più mature… che chiedono rassicurazioni sul presente e soprattutto su un futuro che rimane in un orizzonte incerto.
Le paure non mancano purtroppo, amplificate da modalità di comunicazione scellerate, che rendono più difficile difendere il proprio spazio di sicurezze, soprattutto quando le relazioni che tanto possono nutrirci non si possono vivere in prima persona.
Nello specifico, sto raccogliendo molti interrogativi da persone sulla sessantina o più, che hanno fatto uno sforzo triplo nel riadattarsi alle modalità di vita imposte dall’epoca corona virus…senza un tempo di transizione, da un giorno all’altro dovevano essere in grado di comunicare con i figli e i nipoti da remoto, con video-chiamate, fare a meno anche del ruolo di nonni a volte, rinunciare ad una parte di identità molto gratificante, con il gran rischio di sentirsi esclusi da una porzione di vita vera.
A queste persone, nello specifico, è stato richiesto non solo di rimodulare il proprio lavoro su modalità digitali, non equamente a portata di mano: è stato chiesto di mettersi da parte, di rinunciare al loro ruolo di aiuto per le famiglie con i bambini più piccoli, isolati per essere protetti.
Di fronte ad un crollo delle certezze, fatte di piccole abitudini, di punti di riferimento, mi capita di raccogliere molti punti interrogativi: come poter tutelare uno spazio di fiducia per il futuro, quando questo assume dei contorni così confusi, come tutelare uno spazio per sé e per chi chiede di essere presenti in queste modalità così diverse e impersonali?
Come poter trasmettere il senso della possibilità e della fiducia alle generazioni dei più giovani, quando anche io (mi immedesimo) sessantenne e settantenne, condivido gli stessi dubbi?
Non vorrei che ci rassegnassimo: un’alternativa è possibile, non chiudiamo e non rinunciamo a credere che il futuro sia già scritto. Non lo è.
Possiamo dire che anche noi siamo in difficoltà e questo rappresenta un modo per non lasciar cadere nel vuoto le domande che arrivano dai propri figli, ma anche non far finta di niente.
Non dobbiamo sentirci in colpa di fronte al temporaneo disorientamento che questo periodo ci sta portando, non siamo cattivi genitori o nonni se ci prendiamo il tempo per rispondere, ma dimostriamo che stiamo tentando di dare significato a quanto sta accadendo.
Il rischio più grande è che ciò che vediamo, ciò che sentiamo, possa perdere significato ai nostri occhi. Diventa difficile vivere in un mondo che sentiamo privo di senso: mentre il più grande regalo che possiamo farci è proprio poter restituire un significato a ciò che stiamo vivendo, per quanto più grande di noi.
Tutto ciò può essere facilmente frainteso dal detto “mal comune, mezzo gaudio”, ma è il contrario: pur condividendo le stesse perplessità e gli stessi dubbi, non rinunciamo al tentativo di attribuire un senso a ciò che sta accadendo, non rinunciamo a trovare una posizione più comoda, attiva nel contesto, che è una delle funzioni educative più complesse da testimoniare, nei momenti di difficoltà.
E questo vale per il diciassettenne alle prese con la d.a.d., l’adulto che fa l’equilibrista tra i vari impegni di questa vita e il settantenne che non rinuncia, giustamente, ad essere punto di riferimento per i figli anche se in un modo diverso.
Prendersi cura di sé e dell’altro consiste in un atto generativo quotidiano.
Se ci pensate, le esperienze più solide, a livello emotivo, si costruiscono quando ci si incontra su un piano comune di fragilità e questo periodo ne ha messe in luce un bel po’ …sfruttiamole….
Francesca Carloni